QUANDO IL CIBO NON È SOLO UN PASTO: RIFLESSIONI SUL RAPPORTO TRA IL BAMBINO E L’ALIMENTAZIONE
L’alimentazione è un aspetto fondante dell’esistenza di ciascuno di noi sin dai primissimi momenti di vita. La madre nutre il suo bambino da quando è nell’utero per consentirgli di crescere e di sopravvivere, compiendo un atto di amore, cura, attenzione, protezione e vicinanza. Il momento del pasto è uno spazio di sintonizzazione emotiva con le richieste dell’altro, è dare una parte di sé a qualcuno che ne ha imprescindibilmente bisogno.
Il processo alimentare è infatti al centro della vita del bambino: è il momento che gli consente di relazionarsi con ciò che è al di fuori e di conoscere l’esterno. A testimonianza di ciò vi sono i numerosi e noti studi che hanno dimostrato come alla nascita il bambino possa vedere sino ad una distanza di circa 20 cm: tale misura rappresenta lo spazio che tendenzialmente esiste tra il bimbo ed il viso materno durante il momento dell’allattamento. È proprio durante questi momenti che il neonato inizia a sperimentare emozioni importanti, fondanti della sua personalità e del suo comportamento futuro, quali rabbia, paura, soddisfazione, frustrazione, piacere. La bocca, come già sottolineava Freud nella sua teoria dello sviluppo psicosessuale del bambino, è il primo, solido, fondamentale luogo della conoscenza, dell’esperienza e della comunicazione.
Alla luce di tali considerazioni si può quindi affermare che il legame tra alimentazione e benessere psichico è forte, radicato ed innegabile. Il cibo non è solo il mezzo con cui si fornisce energia all’organismo, ma è anche un elemento base per mantenere una salute mentale che, secondo la definizione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), possa permettere all’uomo di sfruttare al meglio le proprie risorse e capacità cognitive ed emotive, di stabilire relazioni soddisfacenti e mature, di partecipare costruttivamente ed armonicamente ai mutamenti dell’ambiente, di adattarsi alle condizioni esterne ed ai conflitti interni ed esercitare al meglio le proprie funzioni all’interno del mondo sociale. Occorre in quest’ottica sottolineare che il legame tra alimentazione e benessere psichico è bidirezionale e reciproco: quando vi sono carenza o eccesso di cibo, possono scaturire condizioni di sofferenza a carico del Sistema Nervoso Centrale; viceversa, alcuni disturbi psichici come la depressione maggiore possono influire sulle abitudini alimentari. Tali situazioni patologiche possono insorgere in qualsiasi momento della vita dell’uomo, ma negli ultimi anni sono cresciute molto la sensibilità e l’attenzione nei confronti degli aspetti legati all’alimentazione dei bambini. Questo nuovo risalto è determinato sia dal cambiamento della prospettiva in medicina ed in psicologia, che sposta il focus sulla prevenzione del disagio e non semplicemente sulla cura a posteriori, sia dall’insorgenza sempre più precoce dei disturbi del comportamento alimentare. Secondo una ricerca del Ministero della Salute conclusasi nel Febbraio 2021, la presenza di disturbi alimentari nella popolazione italiana è cresciuta del 40% rispetto al 2019, anche a causa della pandemia di Covid. Ancor più preoccupante è l’abbassamento dell’età di esordio: si calcola che il 30% delle persone affette da DAC (Disturbi del Comportamento Alimentare) sia d’età inferiore ai 14 anni. È necessario quindi diagnosticare ed intervenire il prima possibile, poiché i DAC, se non trattati correttamente, aumentano il rischio di complicanze importanti a carico di organi ed apparati; inoltre comportano un rischio di cronicizzazione e nei casi più gravi di mortalità, in particolare per quanto concerne l’anoressia.
I disturbi alimentari più frequenti tra i bambini sono essenzialmente 5: comportamento selettivo, disturbo da alimentazione selettiva, disfagia funzionale, disturbo da rifiuto pervasivo di cibo ed obesità infantile. Nel comportamento selettivo, il bambino mangia solo determinate categorie di cibi, che egli può scegliere in base al colore o al tipo di consistenza. Atteggiamenti di questo tipo sono abbastanza comuni in soggetti fino ai 4 anni, come afferma la psichiatra Laura della Ragione, autrice del libro “ Le mani in pasta”; dopo tale età, sarebbe auspicabile che gli adulti proponessero al bambino una più ampia varietà di cibi, non soffermandosi su eventuali rifiuti iniziali, in modo che il piccolo impari ad apprezzare più sapori e sviluppi una maggiore flessibilità non solo alimentare ma di conseguenza mentale, che lo aiuti successivamente a gestire al meglio i cambiamenti e le novità che gli si presenteranno davanti. Questo ampliamento nutrizionale non dovrebbe essere promosso attraverso metodi coercitivi, che anzi rischiano di irrigidire l’aderenza alla selettività diventando contro-producenti. Nel disturbo da alimentazione selettiva, la situazione diventa più grave: le restrizioni auto-imposte sono molto evidenti e numerose, e sebbene inizialmente il bambino non mostri problemi di crescita (tendenzialmente perché mangia solo cibi ricchi di carboidrati come pizza, patate, pasta), a lungo andare si possono presentare carenze minerali e vitaminiche anche gravi, che possono provocare danni funzionali all’organismo.
La disfagia funzionale ha spesso un origine di tipo traumatico; se per esempio il bambino dovesse vedere qualcuno strozzarsi con un boccone, potrebbe trasformare la paura che capiti anche a lui in un rifiuto per il cibo ed in una difficoltà nell’atto motorio dell’ingoiare. Il disturbo da rifiuto pervasivo di cibo è il più raro ed il più pericoloso: il soggetto non mangia e non beve, è sottopeso e disidratato, e necessita di lunghi ricoveri e terapie ospedaliere.
Anche l’obesità infantile si presenta come un problema molto diffuso, che può avere sia una causa endogena (per esempio, una disfunzione endocrina) che una, più comune, causa esogena. Tra le cause esterne troviamo lo squilibrio tra le calorie assunte e quelle necessarie alla crescita determinato da una cattiva alimentazione, rappresentata per esempio dai cosiddetti “cibi spazzatura”.
In ogni caso, è sempre difficile stabilire quale sia l’eziologia dei D.A.C, e non è possibile identificare un unico fattore causale. Alcune teorie del passato si focalizzavano essenzialmente sul clima famigliare, come nel caso dell’anoressia, che si collegava alla presenza di una madre rigida, fredda, perfezionista ed autoritaria. Oggi sappiamo che non è corretto e neanche utile colpevolizzare eccessivamente i genitori, poiché sono più fattori concatenati a causare il disturbo. A tale proposito, è importante che si mantengano dei rapporti costruttivi con la famiglia del bambino o della bambina che presentano un D.A.C.; infatti, stando ai dati recenti, è rilevante per una prognosi positiva che i genitori vengano coinvolti nel trattamento. Un cambiamento di prospettiva che si concentri sulle risorse familiari è quindi più utile di una visione stigmatizzante e pregiudicante: l’approccio che adesso si predilige è infatti quello basato sulla sottolineatura ed il rinforzo delle risorse familiari e delle potenzialità di recupero e cambiamento interne al nucleo (Walsh, 2008). La famiglia è infatti un sistema dinamico fatto di interrelazioni, che tende a mantenere un suo equilibrio; tale equilibrio, detto anche “omeostasi”, può anche diventare patogeno se rimane rigido di fronte ai cambiamenti esistenziali (come può essere la crescita di un figlio). È quindi necessario che il sistema familiare si adatti costantemente a tutti i vari sconvolgimenti che possono presentarsi, al fine di sostenere la creazione di un nuovo equilibrio, utile ad affrontare il problema alimentare del figlio o della figlia. Il cibo è portatore di simboli, di ricordi, di emozioni, è connessione viscerale con il proprio Io e con l’altro: è importante quindi che sin dalla prima infanzia i genitori si occupino di trasmettere associazioni concettuali e comportamentali positive e sane rispetto al momento del pasto, perché il bambino possa interiorizzarle e portarle nel suo futuro cammino di vita.
Dott.ssa Chiara Caretti – Associazione Psicologi V.C.O. -