È un giorno di settembre, caldissimo, come può essere incandescente il settembre dove vivo io.
Oggi conoscerò nuovi colleghi e nuovi alunni: è il primo giorno in una nuova scuola nella quale (ma questo ancora non lo so) rimarrò, per mia scelta, a lungo.
Mi presento dal Direttore per decidere la classe che vorrei: sono la prima in graduatoria. Mi racconta un po' delle vicende che contraddistinguono questa scuola, della continua alternanza che c'è, di insegnanti che vengono e poi subito fuggono: cercano mete più ambite e vicine. E così il discorso finisce casualmente sull'oggetto del suo interesse: la classe terza, orfana anche quest'anno di tutte le insegnanti.
Non mi chiede alcuna cosa, ha lanciato un sasso (chissà perché proprio a me: sono una sconosciuta per lui!) e aspetta di vedere quanti cerchi provocherà nel mare dei miei pensieri.
Mi ha detto che è una classe difficile...
Non mi stupisco nemmeno più di tanto quando sento la mia voce dire "Credo di non essere pronta per iniziare dalla prima, scelgo di andare in terza!".
Probabilmente è la mia immaginazione, ma di sottecchi lo vedo sorridere.
È cominciata così: ventisei paia di occhi mi perquisiscono, cercano gli indizi più disparati per mettere a fuoco il mio ritratto: vorrebbero conoscermi completamente nell'arco di questa mattinata, ma è solo l'inizio...
Nella prima fila, di fronte alla cattedra, c'è un banco vuoto. Mi piacerebbe spostarci qualcuno, vederlo così mi fa pensare a una bocca sdendata. Ma arranco tra nomi ancora ignoti.
Rivolgo un cenno a una bimba seduta in terza fila, le chiedo di venire lì davanti: è allora che un coro si solleva, penso che non gradiscano la mia scelta. Invece a fatica comprendo che quel posto ha già un occupante quasi di diritto: Giuseppe. Ma dov'è?
Mi spiegano che è un ritardatario abituale: dentro di me penso che correrò ai ripari prima possibile, non mi piacciono le deroghe all'orario scolastico.
Mezz'ora è trascorsa nell'intento di socializzare con questa sconosciuta piccola tribù, quasi non sento il tocco leggero delle piccole nocche sulla porta: il solito coro "Maestra, hanno bussato!".
Al mio avanti una testa ricciuta di capelli insofferenti si affaccia con cautela: è un lampo il suo sguardo lentigginoso che mi percorre veloce dalla testa ai piedi e ritorno: è Giuseppe!
Il mio impegno per tagliare il suo ritardo è tenace: sono una combattente, difficilmente mollo.
La sua costanza nel rispettare i suoi tempi è ragguardevole: è sfrontato, entra e mi guarda e nel nero dei suoi occhi leggo le scuse che non dice mai.
Una mattina, da una casa di campagna che fortunosamente ha un telefono e mi lascia chiamare a scuola, avviso che mio malgrado arriverò con un ritardo che non so quantificare: ho bucato! Sta piovendo e l'unico aiuto che mi arriva dalla mia compagna di viaggio è di tenermi l'ombrello cercando di seguire il mio muovermi frenetico mentre sostituisco la ruota.
Ci rimettiamo in cammino e intanto ha smesso di piovere. Costeggiamo i campi coltivati a ortaggi che precedono di chilometri il paese. All'improvviso qualcosa attira la mia attenzione: da un terreno semisommerso dal fango, emerge una figura che mi sembra familiare. Man mano che mi avvicino vedo che si siede sull'asfalto, si sfila degli stivali di gomma di quattro numeri almeno più grandi dei suoi piedi, prende il grembiule azzurro appeso su una pietra miliare, lo indossa, afferra lo zaino e si mette in marcia lasciandosi alle spalle il campo dove altri sono rimasti a piantare carote.
È Giuseppe: non posso sbagliare. Da quel momento secondo il mio orologio, lui arriva sempre in orario.
Un giorno però sfora: il suo ritardo va oltre il consueto.
Prima mi agito, poi penso che sia malato. Ma mentre sto assuefacendomi a quest'idea, un trapestio concitato arriva dal corridoio e subito dopo Giuseppe si fionda in classe.
È scarmigliato: ha il grembiule strappato con qualche bottone mancante, i capelli che sembrano non aver mai conosciuto un pettine e un occhio pesto.
Gli chiedo di spiegarmi cos'è successo: non pare avere alcuna intenzione di parlare.
Tiene gli occhi bassi: sa che non amo che si usino le mani.
Lo porto fuori dalla classe, so che il suo orgoglio non gli permetterebbe mai di parlare di fronte ai compagni, ma anche lì è un'impresa ardua.
Comincio pian piano a sistemargli il grembiule, lo accompagno a lavarsi il viso, chiedo un po' di pomata da spalmare sull'ematoma. Intuisco che la tensione si allenta. Farfuglia qualcosa quasi parlasse a se stesso: ha fatto a botte con il suo eterno nemico: Biagio della terza C.
Mi accingo a propinargli i soliti dogmi, quando le sue parole a mezza voce mi inchiodano "Maestra, ma lui ti ha chiamato quattrocchi e cicciobomba!".
In tutti gli anni della mia vita, lui è stato l'unico uomo che ha fatto a botte per difendermi!
Racconto di Luisa Staffieri